Sui vuoti linguistici, il dolore che non sappiamo dire e il potere politico delle parole
Ci sono stati (come quelli di una relazione, di una perdita, di un lutto) a cui siamo abituati a dare un nome.
Perdere un genitore significa diventare orfano, finire un matrimonio significa diventare divorziatə, interrompere una relazione romantica e monogama significa essere single.
Ma quando si perde un’amicizia profonda?
Come definiamo quella ferita senza nome?Quando è finita una mia amicizia importante, ho provato un dolore così grande che non sono riuscita nemmeno a parlarne con la mia terapeuta. Non perché non volessi, ma perché semplicemente non sapevo come definirmi. Non ero “single”, non ero “orfana”, non ero “ex” di niente. E allora cosa ero? Come si chiama quel vuoto così grande, quella ferita senza nome? Non riuscivo a trovare parole, né dentro di me né fuori.
Era come se quel dolore non potesse esistere, perché non c’era una parola per chiamarlo. E senza una parola, non riuscivo a raccontarlo, a condividerlo, a farlo entrare nella mia storia. E allora quel dolore è rimasto chiuso in un silenzio che faceva ancora più male.
Ho capito che la mancanza di parole non è neutra: è un buco nella possibilità di essere. Se non puoi nominare un dolore, non puoi neanche farlo vedere agli altri. Non puoi chiedere aiuto. Non puoi farlo toccare, sentire, comprendere. Resta solo un’ombra invisibile, che pesa dentro senza poter uscire.
E questa assenza di parole ci lascia sole, ci isola, ci fa sentire sbagliate anche per quanto soffriamo. Ma io voglio dirti che quel dolore esiste. Anche se non ha un nome, anche se nessuno ti ha insegnato a chiamarlo, è reale. E ha diritto a essere raccontato.
E allora ho scritto questo articolo. Per dirti che ti vedo.
Il potere (e il limite) delle parole
La linguista Karen Stollznow ci ricorda quanto le parole siano molto più di semplici strumenti di comunicazione: esse ci accompagnano nel dolore, fungono da custodi delle nostre esperienze emotive, e ci permettono di conservarlo, di farlo nostro. Attraverso il linguaggio, il dolore viene “inserito” nel tessuto della nostra vita, trasformandosi da esperienza confusa e frammentata a una storia che possiamo raccontare, comprendere e condividere.
Le parole ci aiutano a dare forma all’informe, a creare senso dal caos emotivo, a integrare ciò che ci ferisce nella nostra identità, trasformando il dolore da un peso isolante a un vissuto riconosciuto e, in qualche misura, accettato.
Eppure, quando si tratta di legami che la nostra cultura non considera “ufficiali” (come un’amicizia che finisce, una relazione queer mai riconosciuta dalla famiglia, un amore non corrisposto che pure ci ha attraversato la vita, una coinquilinanza diventata casa e poi spezzata, un legame elettivo con una persona anziana non legata a noi da sangue) questa capacità del linguaggio di accompagnare il dolore si incrina.
Ci troviamo spaesati, senza parole per dire cosa abbiamo perso. Nessuno ci chiama “ex amica”, nessuno parla di “lutto da convivenza finita”, nessuno ci chiede come stiamo dopo che un legame non romantico o non familiare si è interrotto. È come se quel dolore vivesse in una zona grigia, privo di contorni, senza un posto nella grammatica affettiva condivisa. Non possiamo nominarlo, non possiamo raccontarlo, e allora resta isolato.
Manca una parola, ma manca anche (e forse soprattutto) un riconoscimento sociale. Una legittimità a soffrire. Una narrativa comune che ci consenta di attraversare quel dolore con l’accompagnamento di chi ci circonda. Perché se un dolore non ha nome, spesso viene scambiato per esagerazione. Se un legame non ha statuto, spesso viene trattato come se non fosse mai esistito.
Questa riflessione l’ho ascoltata per la prima volta grazie a Elena Panciera, collega e studiosa che stimo profondamente e che vi invito a seguire. Ne ha parlato in modo potente e lucidissimo durante il suo intervento al TEDxPolicoro, intitolato “Parole che non esistono: pratiche di linguaggi inclusivi”.
Ti lascio il video qui sotto: se hai tempo, ascoltalo. Merita davvero.
Elena sottolinea con forza che la mancanza di parole è un vuoto che ci impedisce di raccontare, di mostrarsi, di esistere pienamente in relazione con le altre persone. Quando non possiamo nominare una ferita, non possiamo farla contaminare dallo sguardo altrui (e dunque non possiamo condividerla, né ricevere conferme di realtà e legittimità). Anzi, la mancanza di una parola ci conduce spesso a negare a noi stessi la realtà di quel dolore, isolandoci in un’esperienza che non trova ascolto né riconoscimento. Questo silenzio linguistico non è un vuoto innocente, ma un vero e proprio ostacolo all’esistenza emotiva e sociale.
In altri termini, non avere parole per un’esperienza significa anche non avere accesso a una dimensione relazionale che ne confermi la validità.
Per questo è fondamentale non solo cercare e creare parole nuove, ma riconoscere l’importanza di quelle che mancano, consapevoli che colmare questi vuoti linguistici significa anche aprire spazi di esistenza, di riconoscimento, e di cura per esperienze umane che finora sono state lasciate nell’ombra.
Linguistica sociale: cosa ci insegna?
La linguistica sociale ci aiuta a capire una cosa fondamentale: le parole non sono solo strumenti per descrivere il mondo, ma lo creano, lo modellano, gli danno forma. Ferdinand de Saussure, uno dei padri della linguistica moderna, sosteneva che il linguaggio non fosse una semplice scatola piena di termini da usare, ma un fatto sociale: qualcosa che vive nello spazio tra le persone, nella relazione, nello scambio.
Le parole esistono solo se qualcuno le pronuncia, qualcun altro le ascolta e tutte e due le parti condividono un significato.
E allora, se non esiste una parola condivisa per dire “ho perso un’amicizia”, quella perdita resta fuori dal circuito sociale della comunicazione. Diventa invisibile. Non ha un posto nella lingua, e quindi nemmeno nella cultura che quella lingua plasma. Ci manca un appiglio, una forma, una cornice che dia senso al nostro sentire.
Il linguista John Rupert Firth diceva: “You shall know a word by the company it keeps” (conosci una parola da chi la accompagna). Le parole hanno significato perché vivono in compagnia: sono circondate da altre parole, da gesti, da riconoscimenti, da emozioni collettive. Ma quando una parola manca, anche l’esperienza che dovrebbe descrivere resta da sola. Senza contesto. Senza eco. Senza legittimità.
Non avere un nome per una perdita significa isolarla. Significa toglierle voce e compagnia. E in quel silenzio, non solo ci sentiamo soli, ma iniziamo a dubitare perfino del nostro diritto a soffrire.
Politica del linguaggio: cosa decide il nostro posto nel mondo
Il linguaggio non si limita a descrivere la realtà: la plasma. Decide cosa può essere raccontato, riconosciuto, tutelato. E cosa no. Le parole che abbiamo (o che ci mancano) rivelano una gerarchia affettiva che la società porta avanti da secoli. Una gerarchia in cui i legami centrati sulla coppia romantica e monogama sono al vertice, mentre tutto il resto (amicizie, relazioni queer non istituzionalizzate, famiglie scelte, legami non romantici ma profondamente intimi) resta ai margini.
Non è solo una questione simbolica. È politica. I legami che non rientrano nel modello relazionale dominante non hanno parole, ma spesso non hanno nemmeno diritti. Non puoi chiedere permessi per prenderti cura di un’amica in ospedale. Non puoi inserirla nel tuo stato di famiglia. Non puoi ereditarne nulla, né dire addio in modo ufficiale se muore. Non puoi accedere a un congedo, non puoi rivendicare la tua presenza, nemmeno se quella persona era il tuo perno, la tua quotidianità, la tua famiglia vera.
Eppure questi legami esistono. Ci abitano. Ci salvano. E quando finiscono, ci lasciano svuotati. Ma non c’è parola che dica chi sei dopo. È come se il legame non fosse mai esistito. È questa l’ingiustizia più grande: non solo perdi qualcuno, ma vieni privato anche della possibilità di essere riconosciuto in quel dolore.
Quando una persona amica sparisce senza spiegazioni, quando una relazione affettiva importante finisce senza saluto, il dolore non ha dove andare. Non c’è un termine per chiamarlo, non c’è un luogo dove appoggiarlo, non c’è un tempo che dica: ora puoi elaborare. È un dolore senza statuto, fuori da ogni narrazione legittima.
E allora ci si chiude. Ci si isola. Ci si convince che non dovrebbe fare così male. Che forse stai esagerando. Ma non è così. Il dolore che provi è reale. È la struttura intorno che è manchevole, costruita per riconoscere solo un tipo di amore, un solo modo di stare insieme, un solo tipo di perdita.
Raccontarlo è un atto politico. Dare parola a questi vuoti è un gesto di giustizia. Anche questo è linguaggio inclusivo: fare spazio a ciò che non è mai stato nominato abbastanza.
Da qui ripartiamo
Se oggi non esiste una parola per dire “ho rotto con un’amicizia”, nulla ci vieta di inventarla. Le parole si creano quando qualcuno ha il coraggio di dire: “questo che provo esiste, anche se non ha un nome”. E allora possiamo provarci insieme. Possiamo dire ex‑amico, orfana d’amicizia, legame spezzato, o anche solo fine. Possiamo far spazio, finalmente, a un dolore che finora non ha avuto né voce né diritto di stare.
Perché avere parole non significa solo poter spiegare qualcosa agli altri.
Significa anche poter riconoscere noi stessi davanti allo specchio,
poter dire: è successo davvero.
È finita, e io sono ancora qui.
Non avere una parola per la perdita di un legame che ci ha formato, abitato, salvato, non è un dettaglio. È una ferita dentro un’altra ferita. È come se il mondo ci dicesse che quel dolore non conta. Ma conta. È reale. È valido. E merita cura.
Io non so come si chiami quello che hai perso.
Ma so che se stai leggendo queste righe, è perché in te qualcosa ha risuonato.
So che il silenzio degli altri può fare più male di mille parole sbagliate.
E so che meriti di essere ascoltatə. Anche quando nessuno ha saputo salutarti.
Io ci sono.
Anche solo per stare accanto a quel vuoto senza nome,
finché insieme, un giorno, non troveremo un modo per chiamarlo.
Fonti citate:
- Stollznow su linguaggio e lutto psychologytoday.com
- Saussure sul linguaggio sociale en.wikipedia.org
- Firth sull’importanza del contesto en.wikipedia.org
- Kuncewicz sulla negoziazione del significato