Se hai il diabete, prendi l’insulina. Se hai la depressione, prendi senso di colpa

Immagina di dire, durante una conversazione: “Prendo l’insulina perché ho il diabete.” Nessuna reazione strana. Nessuna domanda insinuante. Nessuno che ti suggerisce di provare a “resistere” o di affrontare la malattia con la sola forza di volontà.

Ora prova a dire: “Prendo un farmaco per l’ansia.” Ecco che il tono della conversazione cambia. Un leggero irrigidimento, un silenzio sospeso. Magari qualcuno sussurra: “Io preferisco metodi naturali.” Come se la tua scelta fosse discutibile. Come se curarsi per un disturbo mentale fosse un fallimento personale, mentre curarsi per un disturbo fisico fosse ovvio e legittimo.

Questa riflessione è nata dalla mia esperienza, sia personale che lavorativa. Da tre anni seguo un percorso di psicoterapia e psichiatria, accompagnato da un trattamento farmacologico. Eppure, nonostante il mio impegno costante per il mio benessere, ogni volta che devo rispondere alla domanda di qualcuno riguardo alla mia cura, un senso di disagio mi assale. Non perché sia qualcosa di cui vergognarsi, ma perché la risposta è quasi sempre accompagnata da un silenzio imbarazzato, da una perplessità che raramente si manifesta quando si parla di malattie fisiche. “Hai mai provato con metodi naturali?” è una domanda che mi è stata rivolta più volte, con quella sensazione che qualcosa non vada, che il trattamento che seguo possa non essere legittimo.

Questo esempio non è solo una riflessione sulla salute mentale, ma un invito a esaminare le disparità e le contraddizioni che caratterizzano il nostro approccio alla salute in generale.

Ciò che mi ha davvero aperto gli occhi è la consapevolezza che questo non è un problema mio, ma della società. Non è la terapia farmacologica a essere il problema, è lo stigma che la circonda. È il fatto che, purtroppo, ancora oggi la cura per la salute mentale venga trattata come qualcosa da nascondere, come qualcosa di cui vergognarsi. La stessa società che accetta senza battere ciglio che una persona prenda farmaci per la pressione arteriosa o per il diabete, si fa diffidente quando si tratta di psicofarmaci.

Il peso del linguaggio: quando la cura diventa un tabù

Il linguaggio che usiamo per parlare di farmaci cambia radicalmente a seconda della patologia. Se una persona prende un farmaco per la pressione, nessuno batte ciglio. Ma se prende un antidepressivo, ecco che emergono sguardi di diffidenza, domande cariche di pregiudizio e un senso di inadeguatezza imposto dall’esterno.

Le parole hanno un peso enorme e il modo in cui parliamo di cura mentale influenza profondamente come viviamo la nostra salute mentale. Le parole comuni sono piene di giudizio e di disprezzo, per non parlare del fatto che il termine “psicofarmaci” viene spesso utilizzato con un tono dispregiativo. Si parla di “drogarsi di psicofarmaci” invece che di “seguire una terapia farmacologica.” Si parla di “diventare dipendenti dalle pillole” invece che di “seguire un trattamento continuativo.” Si dice “essere sedati” invece di “trovare stabilità.” Parole che dipingono la cura come una sconfitta, che insinuano che chi prende uno psicofarmaco non sia più in controllo della propria vita. E che alimentano il senso di colpa, facendo sentire molte persone inadeguate, come se la loro sofferenza fosse una scelta sbagliata.

Eppure, la verità è che curarsi non è mai una debolezza. In realtà, è un atto di grande coraggio, di consapevolezza e di amore per sé. Non c’è nulla di debole nell’affrontare la sofferenza con gli strumenti giusti, con il supporto giusto. E la terapia farmacologica, proprio come quella per qualsiasi altra malattia, è una possibilità legittima. Non una vergogna, non un fallimento, ma una risorsa, un’opportunità per riprendersi la propria vita.

Lo stigma nei media: tra stereotipi e paura

I media giocano un ruolo cruciale nella percezione pubblica degli psicofarmaci e dei disturbi mentali. Film, serie TV e giornalismo contribuiscono, spesso involontariamente, a rinforzare gli stereotipi e a diffondere paura. Troppo spesso vediamo personaggi che, dopo aver preso una pillola, diventano zombie privi di emozioni o individui instabili pronti a esplodere. La narrativa mediatica riduce la complessità della salute mentale a un cliché pericoloso: il paziente che ‘perde il controllo’ o la persona che ‘smette di essere sé stessa’ a causa dei farmaci.

Anche le notizie enfatizzano il lato negativo. Quando una persona con disturbi psichiatrici commette un reato, i titoli spesso mettono in evidenza che era in cura con psicofarmaci, alimentando la paura e il pregiudizio. Ma nessuno scrive: “L’autista che ha causato l’incidente prendeva un farmaco per la pressione.” Perché? Perché lo stigma guida la narrazione e la salute mentale viene trattata come qualcosa di inquietante, da cui prendere distanza.

Non è un caso che tutte le campagne di sensibilizzazione che ruotano attorno alla salute mentale debbano costantemente scontrarsi con l’idea che non solo la malattia mentale sia qualcosa da temere, ma che chi ne soffre sia destinato a essere etichettato, ridotto alla sua malattia, giudicato per come sceglie di affrontarla.

Riscrivere la comunicazione sulla salute mentale


Le parole possono fare la differenza. Il linguaggio ha un potere enorme: può rafforzare lo stigma o smontarlo. Quando parliamo di salute mentale, dobbiamo essere consapevoli di quanto le nostre parole possano influenzare la percezione di chi ci ascolta. Ecco alcune alternative per comunicare in modo più rispettoso e accurato:

Da: “Gli psicofarmaci ti cambiano.” → A: “Gli psicofarmaci aiutano a trovare equilibrio.”
Da: “Chi prende farmaci è dipendente.” → A: “Chi prende farmaci segue una terapia.”
Da: “Sei davvero sicuro di averne bisogno?” → A: “Come ti senti con la terapia?”

Non si tratta di edulcorare la realtà, ma di raccontarla con maggiore onestà e rispetto, senza distorsioni. La salute mentale è importante quanto la salute fisica. E se nessuno si permetterebbe di criticare una persona per prendere un farmaco per abbassare la pressione sanguigna, allora non dovremmo nemmeno permettere che ci sia giudizio o stigma su chi cerca di curarsi per un disturbo mentale.

Come consulente di comunicazione e marketing, lavoro anche con professioniste della salute, come psicoterapeute, dietiste e altre figure professionali che si occupano del benessere psicofisico delle persone. Aiuto queste professioniste a comunicare in modo chiaro, umano e accessibile, affinché la loro attività raggiunga le persone che potrebbero beneficiarne senza il peso dello stigma. Lavorare su una comunicazione più empatica e rispettosa, che valorizzi la professionalità senza cadere nelle trappole del linguaggio stigmatizzante, è una parte fondamentale del mio impegno. Credo fermamente che, se vogliamo costruire una società più consapevole, dobbiamo ripensare il modo in cui comunichiamo la salute mentale. Dobbiamo fare in modo che le persone non si vergognino di chiedere aiuto, che non temano di essere giudicate per la loro scelta di prendersi cura di sé stesse.

Ripetiamolo forte: prendersi cura di sé non è solo legittimo, è un atto di forza e coraggio

Il vero problema non sono gli psicofarmaci, ma la narrazione che li circonda. Una narrazione che possiamo e dobbiamo cambiare. Possiamo iniziare scegliendo parole che non giudicano, che non etichettano, ma che raccontano una realtà normale, che ci permettono di vedere la salute mentale come una parte integrante della nostra vita. E come ogni altra cura, merita rispetto.

Se questa narrazione pesa, sappi che non sei solə. Esistono persone con cui confrontarsi: amicizie di fiducia, professionisti e professioniste della salute mentale, gruppi di supporto. Ci sono spazi sicuri, ed è importante sapere che si possono trovare.

Per qualsiasi dubbio sui farmaci o sulle loro indicazioni, è possibile rivolgersi al Servizio d’Informazione sul Farmaco (Farmaci-line), attivato dal Ministero della Salute per rispondere a domande su efficacia, sicurezza e disponibilità dei medicinali. Il numero verde 800 571 661 è a disposizione non solo per gli operatori sanitari, ma anche per chiunque abbia bisogno di informazioni affidabili. Perché informarsi è un diritto, e la cura merita chiarezza, non paura.

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