Quando includere diventa un atto di potere: riflessioni sul paradosso dell’inclusione e la necessità di una nuova visione di comunità.
Quando ho iniziato a formarmi su tematiche di inclusione e marketing etico, nessuno metteva in dubbio il concetto di “inclusività”. Era considerato un progresso, una necessità indiscutibile. Noi che lavoravamo in questo campo, aspiravamo a costruire società, aziende e comunità più giuste ed equanimi. Tuttavia, con il passare del tempo e con l’evolversi del dibattito, mi sono trovata di fronte a una sfida più complessa: posso ancora definirmi una consulente di “comunicazione inclusiva”?
Sebbene il termine sia ampiamente usato e accolto, è davvero quello più adatto? Ci sono momenti in cui mi chiedo se stiamo perpetuando una narrativa che, paradossalmente, rischia di escludere proprio coloro che cerchiamo di “includere”. In questo percorso, non ho ancora trovato una risposta definitiva, ma vorrei esplorare questo dilemma insieme a voi, in un dialogo aperto e onesto.
Il paradosso dell’inclusività: quando includere significa escludere
Negli ultimi anni, “inclusione” è diventata una parola di riferimento nei discorsi sociali, politici e aziendali. È percepita come sinonimo di progresso, equità e giustizia. Viene invocata nei contesti più diversi: dalle scuole ai luoghi di lavoro, dagli spazi pubblici agli ambienti culturali. Tuttavia, più mi immergo in queste dinamiche, più mi chiedo: cosa significa davvero “includere”? E perché un concetto apparentemente positivo nasconde un paradosso pericoloso?
Il problema risiede proprio nel concetto di inclusione, che presuppone l’esistenza di una norma da cui partire. Spesso, la società è organizzata attorno a una maggioranza o un gruppo dominante, che ha il potere di stabilire chi può farne parte. L’atto di “includere” presuppone un’asimmetria di potere: qualcuno decide chi può essere accolto e chi resta escluso. È un processo che, pur con le migliori intenzioni, rischia di rinforzare le dinamiche di esclusione, proprio quelle che intende combattere.
Inclusione come gesto di potere
L’inclusione, vista in questa ottica, può essere percepita come un atto unilaterale. Il gruppo dominante, che gode di privilegi sociali e culturali, stabilisce le regole del gioco: chi può essere incluso, quali caratteristiche deve possedere, quali compromessi deve accettare per essere accolto. Mi chiedo, quindi: è davvero inclusivo un sistema che mantiene intatti i suoi confini, e che decide chi può entrare?
Quando si parla di inclusività in azienda o nella società, spesso si sottintende che chi desidera far parte di quel gruppo debba adeguarsi a certi criteri prestabiliti. Questi criteri non vengono quasi mai messi in discussione, né dal gruppo dominante né da chi è escluso. E così, l’inclusione diventa assimilazione: chi entra deve spesso conformarsi, nascondere o adattare la propria identità per non disturbare troppo. Questo, in sostanza, non è un vero riconoscimento della diversità, ma piuttosto una sua parziale tolleranza, finché non mette in discussione l’ordine prestabilito.
Il costo della “falsa inclusione”
Un costo altissimo viene pagato da chi cerca di essere incluso. Per ottenere riconoscimento e partecipare attivamente nella società, molte persone appartenenti a gruppi marginalizzati si vedono costrette a sacrificare parti fondamentali della propria identità. Devono “limare” le proprie differenze per aderire a un modello dominante che non rispecchia realmente le loro esperienze. In ambito aziendale, questo si traduce spesso nell’adattamento a un linguaggio, a comportamenti o a dinamiche di potere che non valorizzano davvero la diversità, ma la “normalizzano”.
Questa forma di inclusione superficiale, in cui il gruppo dominante non si mette in discussione, non crea veri spazi di equità, ma perpetua strutture di potere che escludono chi non è disposto a conformarsi. Ci troviamo, così, di fronte a una “falsa inclusione”, in cui i valori e le esperienze delle persone marginalizzate vengono compressi e adattati, piuttosto che rispettati e valorizzati nella loro integrità.
Il ruolo della comunicazione “inclusiva”
Questa riflessione mi ha spinto a mettere in discussione il concetto di “comunicazione inclusiva” stesso. Nel mio lavoro, cerco di creare contenuti e strategie che favoriscano un dialogo equo e rispettoso tra diverse identità. Ma sono sempre più consapevole che non basta parlare di inclusione, se questo significa mantenere intatte le dinamiche di potere preesistenti.
Per una consulenza davvero etica dobbiamo iniziare smettere di pensare in termini di “accogliere” chi è diverso. L’inclusione non dovrebbe essere un atto di benevolenza del gruppo dominante, ma un processo reciproco e condiviso, in cui tutte le persone mettono in discussione le proprie posizioni di privilegio. Solo così possiamo andare oltre il semplice “includere” e lavorare verso una trasformazione radicale del sistema.
Verso una nuova idea di comunità
Nel campo del marketing etico, come in molti altri settori, non possiamo più limitarci a dire “ti includo”. Dobbiamo spingerci oltre e domandarci: come possiamo ripensare il concetto stesso di comunità? Come possiamo creare spazi in cui nessuno debba chiedere il permesso per esistere o sentirsi accettato?
Per me, e per chi lavora nella comunicazione e nel marketing inclusivo, questo significa abbandonare l’idea di una norma dominante a cui conformarsi. Il nostro compito è quello di costruire mondi in cui tutte le identità siano parte di un dialogo aperto e continuo, in cui la diversità non sia una condizione da accogliere, ma il punto di partenza da cui partire per costruire un futuro più equo e giusto.
Un dialogo aperto sul futuro del linguaggio
Non ho ancora tutte le risposte a questo paradosso. Ma sono convinta che la soluzione non sia semplice, né immediata. Quello che so è che dobbiamo continuare a riflettere e a discutere su queste tematiche. Solo così possiamo veramente affrontare il paradosso dell’inclusività e creare una comunicazione più autentica e rispettosa delle diversità.
Il percorso è lungo e complesso, ma voglio intraprenderlo insieme a voi. Solo affrontando questo paradosso, e mettendo in discussione le strutture di potere che lo sostengono, possiamo creare una società e una comunicazione davvero equa, in grado di rappresentare tutte le sfaccettature dell’essere umano: una comunicazione che non si accontenta di parole d’ordine, ma che cerca una trasformazione radicale.